Dal diario di un’olandese volante (n. 39 – Alla faccia del PCI)

di Endriu 

Lorusso lapidePer quanto sia difficile lasciare la bassa bolognese per i mattoni rossi e le strade bagnate di Glasgow, questa volta la sofferenza dell’allontanamento si fa meno pesante, essendo già in programma un nuovo viaggio a sole due settimane di distanza. Torno per l’anniversario dell’11 marzo 1977, quando a Bologna morì uno studente, ucciso dalla polizia vicino a dove abitavo una volta. Non ho perso un anniversario, in questi anni, ma mi sento sempre un po’ a disagio, un po’ fuori luogo in mezzo ai ‘reduci’ di quella pazza generazione che ogni anno si ritrova sotto quel portico. Speravo, con la pubblicazione di un libro, di dare un piccolo contributo alla stesura di una storia più completa di quegli anni, ma nonostante una presentazione e un’intervista pubblicata sulle pagine locali de La Repubblica, la cosa passa parzialmente inosservata, se non solleva acredine da parte di chi ce l’ha con gli storici, specie quelli giovani. È la solita paranoia di chi si è visto accusare di essere un terrorista, nella stampa e nella storiografia che da sempre accosta gli anni settanta al piombo, e gli studenti di allora a un branco di teppisti indisciplinati. L’ironia è che io non ho nemmeno una formazione storica – mi sono laureata in lettere, anzi, in letteratura postmoderna, con Calvino, Tondelli e gli autori cannibali – e ora mi trovo a fare storiografia, per puro caso. Sono una specie di cane sciolto, insomma, e anche il libro lo è: oltre ad alcuni ex-settantasettini, non piace neppure agli ex-PCI, e questo ancora prima che l’abbiano letto… Fra un po’ si offende pure la carta su cui è stampato.

Tuttavia il viaggio vale la pena, non soltanto per la figata di trovarmi su un giornale, ma anche per l’orgoglio di dare origine – indirettamente – a uno slogan che attraversa una contestazione giovanile durante l’anniversario. Uno dei contestatori lancia uno slogan che non può che aver colto dalla presentazione del mio libro, qualche giorno prima, dove mi ha fatto i complimenti per una mia affermazione, e cioè che non bisogna sempre cercare di creare memorie condivise, per il semplice fatto che a volte, semplicemente, non s’ha da fare. Come si possono commemorare le vittime dello stragismo, quando tocca ai parenti delle vittime di pagare le spese dei processi che manco hanno portato a una sentenza? Quando la riconciliazione è forzata, essa rinforza solamente il silenzio delle vittime e dei parenti, e questo non può mai portare alla rimarginazione della ferita.

rave partyIn mezzo alle gioie e alle polemiche ci prendiamo una piccola pausa, la domenica. Destinazione la montagna. Non ho dormito nulla per colpa del nuovo vicino di casa, un bamboccino ventenne che pensa di stare da solo in campagna e ogni tanto terrorizza il povero paese con dei rave party. L’atmosfera non è il massimo. Questo anche perché avevo chiesto a mio marito di intervenire, anche se non mi piace fare la poliziotta, ma dopo una certa ora bona lé. Non abitiamo mica sopra un locale?! Lui, invece, ha rimandato, prima di addormentarsi. Ok, amore, dormi pure che mi arrangio da sola, grazie. Il giorno dopo glielo rinfaccio, ma lui mi dice che ci potevo andare anch’io, a dire qualcosa ai bamboccini. Certo, io in pigiama contro sei maschi ubriachi e drogati, alle due di mattina…? Va bene che sono anticonformista e contraria alla classica divisione dei doveri e dei compiti nella coppia, ma ci sono momenti in cui l’uomo è meglio che faccia l’uomo.

fiumeLa nostra uscita domenicale, nonostante il bellissimo Appennino e le ottime crescentine, si rivela dunque un travaglio, in bilico tra la volontà di goderci più possibilmente il prezioso ma limitato tempo che abbiamo per stare insieme, e l’orgoglio di non abbandonare i propri principi. Dopo un paio d’ore di semi-silenzio, interrotte soltanto dai miei sbadigli, qualcosa inizia a muoversi, ma è solo quando fermo la macchina lungo il fiume Savena, sulla strada di ritorno, che riesco a esprimere tutto ciò che ho dentro. Tra l’altro c’è ancora mezzora di sole e me lo voglio godere, prima di rientrare nelle buie Highlands. Seduti su un tronco d’albero, mentre il fiume gorgoglia veloce davanti a noi, mi viene il pianto. È un pianto senza motivo, uno sfogo libero di tutto ciò che si è accumulato dentro. Una catarsi, strana perché mossa da una sofferenza quasi violenta che non riesco ad attribuire a qualcosa in particolare. Mio marito mi apre gli occhi: è solo la seconda rata del conto che sto pagando per la mia libertà di espressione. E mi rende felice, paradossalmente, perché mi dice che sono viva, che sono piena di sensibilità e di passione. E che ho un uomo fantastico che mi vuole bene, un po’ cafone a volte, ma comunque un uomo che non molla i suoi principi perché la moglie gli sta addosso.

La catarsi mi ha fatto capire un’ultima cosa, e cioè che la nostra espulsione non ci ha fatto soltanto soffrire ma ci ha anche fatto del bene: ci siamo tanto avvicinati in questi mesi, e ora siamo ancora più legati di prima. Aiutano anche le varie espressioni di solidarietà. Quando qualcuno ci dice che, alla notizia dell’espulsione, “qualcosa dentro di me si è rotto”, sento che non siamo soli.

zio PaperoneCosì non ci facciamo sconvolgere quando arriva l’ennesima beffa: l’insinuazione che io avrei trattenuto dei soldi dovuti. Non in tante parole eh, per l’amor di Dio, ma quando uno ti arriva con un foglio pieno di calcoli per poi puntarti il dito su una cifra dicendo che i conti non tornano, non ci sono molti modi per interpretarlo. Il bello è che Zio Paperone, qua, più di una volta ci ha scroccato pizzette e caffè, durante manifestazioni e cortei, senza mai indulgere così minuziosamente nella contabilità, tanto meno offrendoci qualche volta uno spritz in cambio. Eh, quando muore l’amicizia, la memoria è la prima cosa che se ne va.

Ma non è solo lui: il fratello era anche peggio. Zio Paperone me l’aveva presentato a una festa in qualche centro sociale, dove scoprimmo che frequentavamo la stessa facoltà (all’epoca abitavo ancora in via Irnerio). Una volta lo incontrai in biblioteca, e mi invitò a prendere un caffè insieme. Arrivati al bar, apre il portafoglio e mi fa “hmm, sai che non ce li ho?”. Per fortuna per lui sono olandese e non mi offendo, tra l’altro la divisione delle spese tra amici l’abbiamo inventata noi, tanto che ci hanno pure dedicato un’espressione: going Dutch (anche se poi ho scoperto che pure i romani hanno una certa notorietà…). Comunque, sono stata una signora e gliel’ho offerto io il caffé, ma non era quello (e qui viene il più bello): “ah ma no, ce li ho per me, ma ho giusto un euro, quindi non te lo posso offrire il caffé’”. Che figuraccia! Avessi fatto lo stesso scherzo allo Zio, durante qualche manifestazione, magari da un grosso kebabbaro incazzereccio, aiaiai…

il piccolinoE così torniamo in via Irnerio, dopo questo lungo excursus nel tormentoso presente, nelle oscure Highlands dove oggi, stranamente, c’è il sole. Atterro a Edimburgo e vedo, per la prima volta, il cielo azzuro. Mi passa quasi la nostalgia di casa, ma dura poco. È affascinante come l’aereoporto possa indurre emozioni così contrastanti, dipendenti da dove vai: tornando a casa, in Italia, sono sempre contentissima di aspettare nelle sale vuote e sterili delle Departures; al ritorno, invece, mi trascino verso l’uscita come un carcerato che viene riportato dentro dopo l’ora di aria. Mi sento, insomma, come il Piccolino (detto anche picci o, per i nostalgici, PCI) quando lo prendiamo su per accompagnarlo alla porta, e lui si rende conto che lo mettiamo fuori. Il nostro gatto diversamente gatto odia andare fuori, lo odia al punto che gli abbiamo trovato un nuovo soprannome: ‘gatto domus’. C’è un unico modo per “convincerlo” a uscire: rompergli le scatole! L’ultima sera l’abbiamo tormentato per un bel po’. Era nel suo cestino, davanti al termosifone bello caldo, già in partenza per il mondo dei sogni, quando abbiamo iniziato a lanciargli di tutto: ciabatte, palline di fazzoletti, confezioni vuote di Lindor. Tonto com’è, ha litigato con tutti gli oggetti che lo hanno raggiunto nella cuccia, poi alla fine è rimasto a fissarci con gli occhi ghiacciati e immobili come quelli di uno psicopatico che sta per esplodere. Ha funzionato: non ha rotto le scatole per tutta la notte. Un record. L’abbiamo sfinito. Alla faccia tua, PCI!

Vi continuo a rammentare che ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale. Mi raccomando. 

editing by Beatrice Nefertiti

 

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